Dalla diffusione dello smart working alla rinascita dei borghi storici

Fra le conseguenze della pandemia si conta anche la tendenza ad allontanarsi dalla città per riscoprire una vita meno frenetica, più a contatto con la natura. Una deurbanizzazione che potrebbe, se correttamente incentivata, rilanciare anche i piccoli centri ora spopolati.

La diffusione dello smart working è stato uno degli elementi che hanno caratterizzato il 2020. I numeri danno un’idea della dimensione del fenomeno: i lavoratori in smart working durante il lockdown sono stati circa 8 milioni (dati Cgil), mentre prima dell’emergenza erano solo 500mila.

Con il 2021 lo smart working pare passato, in molti casi, dall’essere solo una misura emergenziale (purtroppo ancora necessaria) a costituire una stabile modalità di lavoro.

In parallelo si registra una tendenza all’allontanamento dalle grandi città, con i loro problemi di affollamento, per trasferirsi in zone decentrate, quando non addirittura in aree poco popolate e immerse nella natura.

A dare il via all’inversione di tendenza sono stati i lavoratori trasferitisi anni fa nelle metropoli e che hanno approfittato della possibilità di lavorare da remoto per tornare nei paesi d’origine.

In seguito il desiderio di spazi aperti e verdi, accentuato dall’esperienza del lockdown, unito al perdurare della pandemia con le sue esigenze di distanziamento sociale, ha innescato in molte famiglie, spesso giovani, la volontà di trovare una dimensione di vita in grado di conciliare sicurezza e lavoro con ritmi più equilibrati. Così molti borghi scarsamente abitati, se non addirittura spopolati, hanno ripreso vitalità, anche fuori dalla stagione turistica.

Alcuni sindaci di questi paesini hanno percepito l’opportunità e hanno dato vita a una serie di iniziative per incentivare l’arrivo di nuovi cittadini. Alcuni piccoli Comuni si sono dati da fare per dotarsi di connessione ad alta velocità e fibra ottica. C’è chi offre affitti scontati e chi propone abitazioni da ristrutturare al prezzo simbolico di un euro. Si va da Oyace, in Valle d’Aosta, a Gangi, Sambuca, Delia e Troina in Sicilia, da Fabbriche di Vergemoli, in provincia di Lucca, a Cantiano nelle Marche ed a Borgomezzavalle in Piemonte.

Da segnalare anche il Bando Montagna, promosso dalla Regione Emilia Romagna, che ha offerto un contributo fino a 30mila euro per ristrutturare o acquistare un’abitazione in uno dei 199 borghi dell’Appennino. Le richieste sono state più di 2000.

Photo by Sofia – Umbria

Dalla stessa Anci (Associazione nazionale Comuni italiani) sono giunte al Governo richieste di sostegno ai borghi desiderosi di rinascere: banda larga e vantaggi fiscali per chi sceglie di vivere o fare impresa nei centri a rischio di spopolamento.

Non solo i privati infatti ma anche le aziende stanno iniziando a valutare la convenienza di allontanarsi dalle zone urbanizzate per approdare in territori più “sicuri”.

TurnLab ha già proposto una riflessione sul tema del reshoring, cioè del rientro in Italia di imprese e produzioni trasferite all’estero in passato, rientro dettato dall’importanza di avvicinare i punti di approvvigionamento, produzione e consumo. Alcune aziende potrebbero considerare l’opportunità di stabilirsi in aree lontane dalle città e meno costose.

Del resto lo smart working rende non essenziale la vicinanza di linee ferroviarie o autostrade e riduce la necessità di vasti edifici, essendosi ridotto il numero degli addetti presenti fisicamente. Lo stesso smart working ormai consente, ad esempio, a un’azienda brianzola di assumere un ingegnere siciliano, senza che questi debba muoversi da casa.

La ricetta di Stefano Boeri: patti di reciprocità tra città e piccoli centri

In una recente intervista su Repubblica, l’arch. Stefano Boeri ha affrontato il tema del recupero dei borghi storici. A fianco di incentivi e agevolazioni, Boeri propone dei “patti di reciprocità tra le città e i piccoli centri delle aree interne. La cornice legislativa dovrebbe permettere di aprire dei tavoli di lavoro a cui siederebbero i sindaci delle città, quelli dei borghi limitrofi, ma anche aziende, rettori di università, catene della grande distribuzione, imprenditori della ristorazione”.

TurnLab: una finalità per il Recovery Fund

I fondi europei connessi con il Recovery Fund potrebbero essere impiegati, a nostro parere, anche per la valorizzazione infrastrutturale dei piccoli Comuni, premessa per creare le condizioni di un riequilibro tra territorio e insediamenti umani e produttivi, con un positivo impatto sulla qualità della vita complessiva del Paese.

Giuseppe Sabella: “La deurbanizzazione come occasione di crescita economica e sociale”

Sulla tendenza ad allontanarsi dalle città, favorita dalla pandemia, in cerca di stili di vita più “naturali” ci siamo confrontati con il Professore Giuseppe Sabella. Direttore esecutivo di Think-industry 4.0, research fellow della Donald Lynch Foundation (North Carolina, USA), è autore di ricerche e pubblicazioni sui temi dell’impresa. Il suo ultimo lavoro è “Ripartenza verde. Industria e globalizzazione ai tempi del Covid”.

Dott. Sabella, si può parlare di un impatto economico e sociologico derivante dalla ricerca dei giovani di condizioni di vita migliori e dall’avvicinamento di molti di loro alle attività del settore primario, come agricoltura e allevamento?

Il settore primario è un segmento prospero della nostra economia e nel 2020, nonostante la pandemia, si è mantenuto al primo posto in Europa per valore aggiunto, davanti a Francia e Spagna. I primati dell’agricoltura italiana, la più biodiversa d’Europa, sono le specialità dop igp stg, i vini doc docg, i prodotti tradizionali regionali. Il settore si è molto innovato, il che ha originato l’avvicinamento dei giovani. Da nord a sud c’è stato un lavoro importante delle Regioni per attrarre i giovani, dall’altra per favorire i passaggi generazionali e capitalizzare la continuità aziendale. Si tratta di una tendenza importante che può essere valorizzata dal processo di ripopolamento delle aree non urbanizzate.

Da un punto di vista sociologico, ritiene che il Covid e il distanziamento sociale abbiano favorito il processo di deurbanizzazione?

La pandemia ha reso quotidiano il distanziamento sociale e, per quanto concerne il lavoro, si è ricorso in modo massiccio allo smart working. Al di là del fatto che le imprese sono comunque chiamate a un salto di qualità nell’applicazione del lavoro agile, quest’ultimo è un vero driver del processo di deurbanizzazione. Si tratta di una trasformazione irreversibile che supera la contingenza del distanziamento sociale: il lavoro agile favorirà la rinascita della periferia e dei borghi, occasione interessante per l’Italia in ragione della sua morfologia urbana, così ricca di tradizione e di storia.

Per quanto concerne il fenomeno del reshoring, vi sono studi o dati che ne valutano l’impatto (il numero delle aziende rientrate in Italia e dei nuovi posti di lavoro creati)?

Sul back reshoring comincia ad esserci un inizio di letteratura scientifica che, però, mi pare ancora poco pronta a determinare in modo significativo l’impatto macroeconomico in termini di pil e posti di lavoro. Tuttavia queste prime elaborazioni ci danno indicazioni preziose sia sulla portata – i numeri sono interessanti e riguardano in gran parte di imprese medio-grandi – sia sulle caratteristiche del fenomeno (le imprese tornano, ad esempio, a cercare la qualità della manodopera).

Possiamo ritenere concluso il trentennio dell’offshoring, ovvero della delocalizzazione produttiva che ha fatto la fortuna in particolare della Cina. Non solo perché vi abbiamo trasferito innovazione, competenze e conoscenze, ma anche perché i cinesi sono stati così bravi da superarci nella ricerca e nell’innovazione tecnologica. D’altro canto, il fatto che imprenditori e investitori siano tornati a cercare ecosistemi economici più maturi, costituisce, per l’Europa e per il nostro Paese – secondo per capacità manifatturiera nell’Unione – un’occasione importante.

I finanziamenti europei potranno favorire e consolidare il fenomeno del rilancio delle zone meno valorizzate?

Le città che si decongestionano e si svuotano sono l’occasione per il ripopolamento dei borghi. Da una parte il processo chiede uno sforzo significativo di nuova progettualità agli amministratori locali. Dall’altra si tratta di un’occasione di crescita economica che credo chieda attenzione su due piani: quello dell’infrastruttura digitale e quello energetico. Per quanto riguarda il primo, la rete digitale deve svilupparsi in modo decisivo. Per quanto riguarda il secondo, occorre modernizzare città e borghi da un punto di vista edilizio ed energetico, tramite interventi di riqualificazione e utilizzo di fonti sostenibili.

Come il combinato di questi tre fenomeni (reshoring, deurbanizzazione e finanziamento europeo) potrà modificare la struttura economico-sociale del Paese?

La crescita del settore primario, delle attività produttive per effetto del reshoring e della possibilità attraverso i fondi europei di modernizzare le infrastrutture digitali ed energetiche, sono fattori che concorreranno a cambiare radicalmente il nostro tessuto economico e sociale. Inoltre non sottovaluterei la spinta che proprio dalle zone decentrate può arrivare: è qui che si può liberare una nuova socialità – periferie e borghi da sempre sono luogo di più vivace vita comunitaria – che può contaminare l’intero Paese e che può rivelarsi elemento decisivo anche per la crescita economica.

È possibile ritrovare nella storia situazioni che abbiano impattato in modo così pesante sulla vita sociale italiana?

Nell’800, il processo di industrializzazione e le nascenti fabbriche hanno spostato il lavoro dalla campagna alla città, proprio come oggi lo smart working sta trasferendo il lavoro dalla città alla periferia. È il lavoro a guidare la trasformazione sociale. Non scopriamo nulla di nuovo: la sociologia, nata proprio nell’800, ha riconosciuto nel lavoro la fondamentale categoria del cambiamento.

Al di là delle contraddizioni evidenziate in particolare da Durkheim e Marx, era chiaro che quella “grande trasformazione” – così l’avrebbe poi chiamata Karl Polanyi – avrebbe prodotto ricchezza. E così è stato, in termini non solo economici e sociali ma anche demografici.

Oggi Andrew McAfee (capo ricercatore al MIT di Harvard), riferendosi ai cambiamenti attuali, parla del “secondo grande balzo in avanti nella storia dell’umanità”, dopo il primo grande balzo dell’800. L’auspicio è che McAfee abbia ragione. Ma io non credo si tratti di un abbaglio.

In conclusione, possiamo affermare che lo smart working ha favorito l’incontro di esigenze che difficilmente avrebbero potuto incrociarsi in altro modo: da un lato il dramma di borghi bellissimi e storici che non si rassegnano alla rovina e dall’altro la riscoperta della natura e della tranquillità da parte di tanti cittadini stanchi della frenesia (e, in tempi di pandemia, della scarsa sicurezza) delle città.

Se sempre più persone si trasferiranno nei piccoli Comuni, qui rifioriranno attività e servizi, che renderanno ancora più attraenti i paesi. Le case abbandonate potranno venire recuperate e molti gioielli di architettura e storia ritrovare così il loro splendore. Se questo trend verrà nei prossimi anni confermato lo vedremo: per ora a noi piace sperare che da un’emergenza possano nascere nuove opportunità.

Il reshoring, opportunità per la ripresa

Il fenomeno del rientro in Italia delle produzioni delocalizzate all’estero è stato accentuato dalla pandemia, che spinge a un nuovo approccio “local-to-local”.​

Partiamo da due immagini significative, che rappresentano le conseguenze più recenti delle passate strategie di delocalizzazione all’estero di impianti produttivi: la chiusura delle fabbriche di automobili in Europa nel febbraio 2020, quando per il lockdown nell’Hubei non arrivavano più i componenti, e l’atterraggio a Fiumicino di un carico di mascherine, la cui produzione in Europa era quasi scomparsa, inviate dalla Croce Rossa cinese.

In realtà la pandemia ha solo enfatizzato problemi già riscontrati e che, in particolare dalla crisi del 2008-2009, hanno rafforzato il fenomeno del reshoring, cioè del rientro sul territorio nazionale di sedi e produzioni precedentemente spostate all’estero, nell’Est Europa o in Asia.

Nel recente documento di Confindustria “Innovazione e resilienza: i percorsi dell’industria italiana nel mondo che cambia” (novembre 2020) a questo tema è dedicato un ampio capitolo, in cui vengono utilizzati i dati raccolti dal rapporto “Il reshoring manifatturiero ai tempi del Covid-19, trend e scenari per il sistema economico italiano”, elaborato dal prof. Luciano Frattocchi (Università dell’Aquila) – che da dieci anni cura l’unico database che monitora i fenomeni di reshoring in Europa e negli Stati Uniti (“European Reshoring Monitor”) – dal prof. Paolo Barbieri dell’Università di Bologna, dalla prof.ssa Albachiara Boffelli dell’Università di Bergamo, dal prof. Stefano Elia del Politecnico di Milano e dal prof. Matteo Karlchschmidt dell’Università di Bergamo.

Perché le aziende “ritornano”?

L’esperienza della delocalizzazione, che tanto impulso aveva avuto negli anni ’80 e ‘90 del secolo scorso, come detto ha iniziato già da tempo a mostrare i suoi limiti.

Come ha spiegato a Il Sole 24 Ore Innocenzo Cipolletta, presidente del Fondo Italiano d’Investimento e presidente di AIFI e di Assonime, “c’era già da qualche anno un set di elementi per un nuovo livello di riflessione.

Qualche spunto nel mondo del business, in particolar modo nell’ambito della Supply Chain Strategy, era arrivato. I concetti di Resilience, Adaptability e Flexibility sono da qualche tempo tra i maggiori temi d’interesse per il Dipartimento del CTL (Center of Transportations and Logistics) del MIT di Boston e di altri prestigiosi istituti di ricerca, al fine di mettere a punto un nuovo paradigma per approvvigionarsi-produrre-distribuire, garantendo la business continuity e generare addirittura valore in un mondo sempre più connesso e imprevedibile”.

Nel documento di Confindustria troviamo esplicitate alcune delle problematiche connesse alla delocalizzazione:

  • la difficoltà di gestione di lunghe filiere, soprattutto in Paesi, come quelli del Sudest asiatico, interessati da avvenimenti e cambiamento socio-politici;
  • la minore qualità delle produzioni delocalizzate;
  • la rivalutazione del “made in” da parte dei consumatori;
  • processi di innovazione, che rendono importante la vicinanza tra manifattura e centri di ricerca;
  • le sempre più sentite istanze di sostenibilità ambientale e sociale, difficilmente conciliabili con le esigenze di continui trasporti di materie e prodotti e con la perdita di posti di lavoro e competenze causata dalla delocalizzazione;
  • la diminuzione dei differenziali di costo che in origine avevano indotto lo spostamento all’estero;
  • gli incentivi (dove introdotti) al reshoring.

In Italia, come ha evidenziato il rapporto elaborato dai 4 atenei, sono 175 le attività di reshoring (totale o parziale) recentemente realizzate e il fenomeno è in fase di accelerazione a causa della pandemia.

L’emergenza sanitaria ha infatti posto in primo piano la vantaggiosità di un approccio “local-to-local”, che avvicini i punti di approvvigionamento, produzione e consumo.

«Tra le possibili conseguenze di lungo periodo del Coronavirus – ha spiegato il prof. Luciano Frattocchi a Vertus – vi è la riconfigurazione e l’accorciamento delle catene del valore, con l’obiettivo di renderle più resilienti e più sostenibili. Nel breve periodo si sono già registrati casi di rilocalizzazioni nel Paese di origine dovuti all’impossibilità di utilizzare la propria capacità produttiva disponibile in Cina o di acquistare da fornitori cinesi».

Per il prof. Stefano Elia del Politecnico di Milano “si tratta di un’opportunità unica per il nostro Paese, che dovrebbe cercare di cogliere con delle politiche volte a favorire il rientro di alcune nostre attività produttive e/o ad accogliere le attività produttive di altri Paesi che decidono di ricollocarsi”.

Un’occasione da cogliere: come si stanno muovendo i Paesi europei e gli Stati Uniti

Prima di considerare la situazione italiana, diamo uno sguardo a come i governi, negli Usa e in Europa, stanno gestendo l’intensificarsi della tendenza al reshoring.

Negli Stati Uniti al reshoring sono stati dedicati vari provvedimenti sia dell’amministrazione Obama sia di Trump: detrazioni fiscalicrediti di imposta e incentivi, investimenti in infrastrutture e ostacoli normativi all’offshoring.

In particolare, come evidenzia Confindustria, dal 2012 al 2014 un sussidio pari al 20% dei costi sostenuti per il rientro e la costituzione di centri di collaborazione tra università e imprese, per favorire il recupero delle competenze e l’innovazione tecnologica anche nelle Pmi, hanno ulteriormente convinto le aziende.

Per quanto riguarda l’Unione Europea, al momento non esistono piani o strumenti dedicati al fenomeno, anche se nel 2016 il policy brief “Renaissance of Industry for a Sustainable Europe Strategy” parlava del reshoring come di una strategia per favorire il ritorno alla manifattura a un livello pari al 20% del Pil europeo.

Alcuni Paesi europei stanno invece cogliendo la palla al balzo.

La Francia ha già attivato dal 2013 varie misure per favorire il rientro delle aziende e nel 2020 ha introdotto sostegni economici e incentivi fiscali per i settori automotive e aeronautico e per le Pmi.

Nel 2014 il Regno Unito ha lanciato il Reshore UK Plan, che prevede veri e propri servizi di consulenza per valutare le probabilità di successo di attività di reshoring, l’assistenza nelle procedure di rientro e diversi incentivi.

Da notare infine che anche alcuni Paesi asiatici attuano politiche a sostegno del rientro delle imprese manifatturiere. Taiwan, Giappone e Corea del Sud stanno operando per il reshoring delle attività delocalizzate in Cina.

La situazione in Italia: un percorso ancora agli inizi

Tra le aziende italiane la tendenza al reshoring è avviata e in rafforzamento.

«Nel 2018 abbiamo fatto un’analisi su un campione di 130 imprese che valevano 15 miliardi di fatturato aggregato – ha spiegato a “Repubblica” Giuliano Busetto, presidente dell’Anie, che associa 1.400 imprese italiane dell’elettronica-elettrotecnica – e il 19% ha parlato di piani di reshoring. Erano solo il 9% qualche anno prima. Si può accelerare ancora ma serve sburocratizzazione, dare certezze normative e agevolare gli investimenti su tecnologie e skill».

Tra le grandi aziende già rientrate, si possono elencare Asdomar, Artsana, Beghelli, Vimec, Diadora, Safilo, Zegna, Geox.

Significativo il caso di Candy: la proprietà cinese Haier ha scelto di riportare in Italia la produzione di lavatrici da incasso, delocalizzata in Cina dai precedenti titolari.

La situazione è stata fotografata, nel giugno 2020, da un approfondito articolo di Stefano Carli, basato sui dati dell’European Reshoring Monitor.

All’estero l’Italia è presente con quasi 24mila imprese, 9mila del settore industriale e 14.700 aziende di servizi.

Molte stanno valutando di rientrare perché anche all’estero il costo del lavoro è cresciuto, così come lo sono i costi della logistica; perché hanno bisogno di più flessibilità e qualità della produzione; perché il “made in Italy” ha immediate ricadute positive sui ricavi.

Nonostante ciò, al momento non sono ancora state attuate politiche nazionali volte a incentivare il reshoring, anche se il tema ricorre costantemente quando si parla di rilancio del Paese.

In settembre, ad esempio, il ministro del Mise, Stefano Patuanelli, ha dichiarato all’Assemblea di Confindustria: “Dobbiamo continuare a lavorare sulla cornice sistemica, così da rendere il nostro Paese più attrattivo, eliminando le tante viscosità che finora hanno reso il fare impresa in Italia più difficile e meno conveniente che altrove. Al contempo, creando le condizioni per riportare a casa le nostre esclusive produzioni e attrarre quelle degli altri, con un serio programma di back reshoring”.

Il parere di TurnLab: creare una task force tra istituzioni, Università e professionisti della trasformazione industriale

La nostra riflessione in TurnLab si è focalizzata sull’importanza, per l’Italia, di elaborare un dettagliato piano per il reshoring sostenuto da task force che coinvolgano Ministero, Regioni, Invitalia, Università, centri di ricerca, aziende specializzate in processi di trasformazione industriale.

Si tratta infatti sì di stabilire incentivi e agevolazioni, ma anche di dotare il Paese di infrastrutture per l’innovazione, di recuperare e ampliare impianti e competenze e di ridimensionare un apparato burocratico che ostacola lo sviluppo delle imprese.

Paradossalmente, da questo punto di vista la pandemia si presenta come un’occasione. Secondo il modello “anti-fragile” del filosofo e matematico Nicholas Taleb, l’incertezza derivante dall’emergenza è il motore che produce il miglioramento. In quest’ottica il fenomeno del reshoring, adeguatamente favorito, può contribuire a creare in Italia un tessuto di imprese appunto “anti-fragili”, pronte ad affrontare le criticità e a farne la spinta per la crescita.

Nasce TurnLab, la vetrina delle idee e dei valori di Vertus

Al via la rubrica di cultura manageriale curata dai nostri professionisti.​

Alla base di ogni progetto, personale o aziendale, c’è sempre una fase di studio, di riflessione e approfondimento, per porre le basi di quella che sarà poi la realizzazione.

In Vertus, studio, riflessione e approfondimento sono parte integrante del metodo di lavoro, anche per la complessità e continua evoluzione delle materie trattate.

Ne risulta un patrimonio di competenze che, oltre a trovare la sua immediata applicazione nella mission aziendale di Vertus, merita di essere condiviso.

Nasce così, in concomitanza con il rilancio del sito, TurnLab, una rubrica dedicata all’approfondimento della cultura manageriale, curata dai professionisti di Vertus.

L’obiettivo è quello di fornire esempi e spunti di riflessione su numerose tematiche attuali, che possano contribuire alla formazione di tutti coloro che si interessano al mercato del lavoro e alla sua evoluzione, ai processi di reindustrializzazione e ai meccanismi di supporto finanziario alle imprese.

TurnLab, come detto, raccoglie le competenze e conoscenze dei collaboratori di Vertus che hanno scelto di aderire a questo progetto, mettendosi in gioco con l’intento di offrire una visione più chiara del mondo del lavoro attuale e futuro, avvalendosi delle proprie esperienze.

Confrontarsi in TurnLab significa lavorare in squadra per stimolare la nascita di nuove idee da condividere prima di tutto con l’intero team di Vertus e poi con quanti vorranno fruire di questa nuova rubrica.

I suoi contenuti spazieranno sui 3 macro settori in cui si suddivide l’attività di Vertus: reindustrializzazione, HR e finanza agevolata.

“In particolare – spiega Alessandro Ielo, founder di Vertus, che ha fortemente voluto la creazione di TurnLab – la rubrica promuoverà i principi della sostenibilità sociale d’impresa e della tutela del valore, che sono i cardini del nostro agire in tutti e tre i settori. TurnLab dovrà essere una sorta di vetrina delle idee che animano l’attività di ricerca in Vertus”.

Il coordinamento dei lavori, dal periodico brainstorming alla definizione delle tematiche da approfondire e pubblicare, è stato affidato da Ielo a Ilaria Girino, consultant nella divisione HR Solutions di Vertus.

“Ho accettato con molto piacere e interesse questo compito – commenta Ilaria Girino – Seguo con passione i temi legati alla comunicazione e al digitale. Per questo, potermi occupare di una rubrica online, con la quale trasmettere il pensiero di Vertus, era per me un’esperienza imperdibile”.