Di Michele Dell’Orfano, head of operational consulting di Vertus
Da uno studio dei servizi alle imprese di Vertus emerge che oltre il 25% dei progetti di temporary management riguarda il chief financial officer (CFO); seguono: direttore generale, operation e quality managers.
L’analisi evidenzia perché oggi sempre più CFO arrivano a ricoprire ruoli di top manager all’interno delle aziende. Come un timoniere esperto che ha costruito la sua esperienza nel guidare grandi e piccole navi attraverso le impervie acque dei 7 mari, così il temporary manager CFO si immerge nella realtà aziendale assumendo un ruolo di guida e orientamento: è in grado di interpretare le esigenze e le visioni della proprietà, dell’imprenditore, e di trasformarle in azioni concrete e strategiche con l’obiettivo di migliorare l’efficienza operativa, la stabilità finanziaria e la crescita dell’azienda.
Di seguito alcuni degli elementi che rendono questa figura così interessante per gli imprenditori:
Esperienza finanziaria
Questi professionisti acquisiscono una vasta esperienza nel campo finanziario e nella gestione delle risorse economiche delle aziende. Questa competenza è estremamente preziosa per le piccole società che spesso hanno limitate risorse e necessitano di una gestione finanziaria accurata.
Competenze di gestione generale
I migliori sviluppano competenze in aree di gestione aziendale come: operazioni, risorse umane, vendite e marketing. La comprensione e, a seguire, la conoscenza di questi aspetti li rende candidati ideali per assumere ruoli di leadership generale.
Flessibilità e adattabilità
Sono abituati a lavorare in ambienti dinamici e ad affrontare sfide aziendali complesse. Questa esperienza li rende agili e in grado di adattarsi rapidamente a nuovi contesti e situazioni impreviste. La capacità di adattamento è particolarmente importante nelle piccole società dove le risorse sono limitate e la flessibilità è una chiave essenziale per il successo.
Approccio strategico
Sono spesso chiamati a risolvere problemi finanziari e a sviluppare strategie per migliorare la salute dell’azienda. Questo approccio orientato ai risultati può essere esteso anche alla gestione generale dell’azienda, aiutando ad identificare opportunità di crescita e a prendere decisioni basate su dati e non su bias cognitivi.
Networking e reputazione
Lavorano con diverse aziende e hanno la possibilità di creare un ampio network di contatti professionali. Questo network può essere vantaggioso quando si cercano soluzioni creative a problemi complessi.
Quindi ogni CFO è un leader naturale? Come ho avuto occasione di raccontare recentemente all’evento di Fabbrica Futuro a Brescia, purtroppo no.
Con un gioco di parole, in Vertus, diciamo: “Ogni temporary è un manager ma non tutti i manager possono essere temporary manager”. E’ una figura professionale caratterizzata dal “fare – agire”; ha carattere operativo, ha un’ampia visione d’insieme e possiede conoscenze specifiche del funzionamento delle aziende e delle loro dinamiche evolutive, ma non tutti i manager sono in grado di fare i piloti della nave.
Arriviamo al nostro ruolo nel processo che porta al successo di questo genere di iniziative. Vertus approccia ogni progetto come un puzzle ingegneristico. Va assemblato con metodo ed attenzione; ogni tassello ha la sua collocazione naturale. La nostra esperienza ci porta con facilità ai manager più in gamba perché negli anni siamo riusciti a costruirci un network di eccellenze (DataWorkNET), ma è solo grazie al nostro metodo che arriviamo a identificare i migliori mix manager-progetto.
La formula? E’ un segreto, ma gli ingredienti sono semplici: tanta conoscenza delle dinamiche della selezione, un pizzico di Hogan e di creatività e, mettendo insieme il nostro network, oltre 40 anni di esperienza di campo tra progetti di ingegneria, qualità, finanza e HR.
Un’analisi condotta da Aiso, Associazione Italiana delle Società di Outplacement, di cui Vertus è membro attivo, conferma che i tempi medi di ricollocazione di lavoratori che si avvalgono di un percorso di supporto di carriera (Outplacement) è di circa il 50% inferiore a quello di chi si muove autonomamente nella ricerca. Diventa dunque decisivo, nel percorso di reinserimento nel mercato del lavoro, appoggiarsi a operatori specializzati che consentano al candidato di affrontare nel modo migliore questo importante snodo. L’Outplacement è tra i più potenti strumenti di politica attiva a disposizione delle imprese per mitigare gli effetti di momenti di crisi o di fine tuning organizzativo nel segno della sostenibilità sociale. Il supporto alla ricollocazione mira innanzitutto ad aiutare la persona a costruire un obiettivo professionale coerente con le proprie migliori attitudini, in secondo luogo ad affiancare il candidato nel definire e potenziare le proprie aree di miglioramento, ancora ad aiutarlo nella messa a punto di efficaci strumenti di comunicazione, per potersi presentare in maniera ottimale ai nuovi potenziali datori di lavoro, anche attraverso l’attivazione di efficaci modelli di autocandidatura.
Nonostante sia del tutto evidente l’utilità del supporto alla ricollocazione, in Italia l’Outplacement è uno strumento ancora largamente sottoutilizzato. Da una parte non esiste una normativa che obblighi le aziende ad attivarlo in caso di risoluzione non consensuale del rapporto di lavoro, dall’altra si riscontra una certa avversione, anche a livello di organizzazioni sindacali e datoriali, verso uno strumento di cui si vede solo l’impatto in termini di costo diretto per l’azienda o di minore buonuscita per il lavoratore, perdendone totalmente di vista il valore morale e sociale.
Fintanto che il pubblico, prendendo atto della evidente inefficacia dei centri per l’impiego, non prenderà coscienza della necessità di regolare in modo diretto e non derogabile tale fattispecie, avvalendosi di professionalità davvero in grado di dare un aiuto effettivo a chi si trova a perdere il lavoro, l’Italia si troverà in ritardo rispetto ai nostri partner europei, scontando un mercato del lavoro meno efficiente e più ingessato. Ricollocare prima le persone significa inoltre risparmiare risorse pubbliche (ad esempio la Naspi). Lo strumento dell’Outplacement, infatti, rappresenta una delle armi più efficaci nella lotta alla disoccupazione.
Di Christian Senatore, senior business developer – finanza agevolata
Con il termine Transizione 4.0 si vuole definire il processo di trasformazione, in particolar modo digitale, che le imprese sono chiamate a compiere affinché possano essere più competitive non solo sul mercato italiano, ma anche e soprattutto sul mercato mondiale. La tecnologia si sta rivelando un importante e valido alleato delle imprese in questo processo di transizione.
Questo processo di trasformazione e di innovazione richiede, tuttavia, una serie di sforzi non indifferenti alle imprese, soprattutto dal punto di vista economico, strategico e di sviluppo di nuove competenze legate a nuovi processi produttivi e alla nascita di nuove aree di business. A tal proposito il Governo italiano ha messo a punto, sin dal 2017, una serie di incentivi al fine di sostenere questa trasformazione digitale, ovvero la Transizione 4.0. Nato come Piano Industria 4.0, poi ribattezzato Prima Impresa 4.0, e infine, dal 2020, Piano Transizione 4.0.
In tal senso sono state deliberate una serie di opportunità sotto forma di crediti d’imposta, affinché le imprese possano essere supportate nei loro investimenti, che incentivano le spese in: beni strumentali, materiali 4.0, beni strumentali immateriali 4.0, ricerca e sviluppo, innovazione e design. Infine, le spese riguardano anche la Formazione 4.0, agevolabile fino al 2022, in attesa di decisioni governative.
Tramite il credito d’imposta Formazione 4.0, il Governo cerca di stimolare gli investimenti nella formazione riguardo alle materie legate alla tecnologia, rilevante per la trasformazione tecnologica e digitale delle aziende. Questo strumento si rivolge quindi a tutte le aziende che vogliano investire nella Formazione 4.0 indipendentemente dalla natura giuridica, dal settore economico di appartenenza, dalla dimensione, dal regime contabile e dal sistema di determinazione del reddito ai fini fiscali.
Riguardo al credito d’imposta, nell’ambito del settore ricerca e sviluppo, secondo l’Istat, questo strumento risulta in generale meno efficace nei confronti delle imprese neo-costituite e di piccole dimensioni, le quali hanno tendenzialmente bilanci in passivo, ed è poco adatto a sostenere grandi programmi di investimento ad alta complessità e incertezza. Per quanto concerne la distribuzione per intensità tecnologica, negli ultimi anni, il credito d’imposta nella ricerca e sviluppo ha coinvolto soprattutto: le imprese manifatturiere che appartengono alla classe bassa e medio-bassa, le imprese di servizi a bassa intensità di conoscenza, ma anche quelle di servizi ad alta intensità di conoscenza con percentuali più basse.
L’aspetto economico è ciò che incentiva ed ha incentivato maggiormente le imprese nel sostenere questo processo di Transizione 4.0, ma non bisogna tralasciare i vantaggi che di riflesso le imprese hanno avuto nel trasformare, digitalizzare e innovare il proprio business. Tra questi vantaggi rientrano soprattutto: la maggiore produttività, la maggiore efficienza dei processi, maggiore qualità con conseguente riduzione degli scarti di produzione, la riduzione dei fermi macchina, la miglior risposta alle esigenze del mercato e, infine, maggiore sostenibilità.
Le aziende cercano profili altamente qualificati ma, in molti casi, faticano a trovarli perché mancano le competenze adatte. Ingegneri meccatronici ed energetici, progettisti di sistemi informatici, specialisti in cyber sicurezza, programmatori e business developer: sono questi i talenti di cui si continua a registrare la carenza per coprire le posizioni vacanti. Lo rivela un’analisi di Vertus, gruppo italiano di società di consulenza con servizi integrati a supporto della trasformazione di aziende, persone e processi.
L’indagine evidenzia come molte aziende siano disposte ad offrire, anche in ingresso, stipendi più elevati della media e contratti a tempo indeterminato. Ciononostante, è spesso complicato attrarre il giusto mix di competenze. Un esempio: si stanno investendo sempre più risorse nella cyber sicurezza e le aziende sono alla ricerca di professionisti altamente qualificati che possano aiutarle a prevenire attacchi dal web. Si tratta di profili con una professionalità composita e in costante evoluzione, difficili da reperire sul mercato.
Dopo oltre due anni caratterizzati dall’emergenza sanitaria ed economica, si iniziano peraltro a vedere segnali di ripresa e, in alcuni settori, per esempio quello tecnologico, l’offerta di lavoro addirittura supera la domanda.
Dallo studio di Vertus emerge, inoltre, che alcuni dei macro-trend osservati a partire dalla metà dell’anno precedente stanno registrando conferme anche per il 2023. Le opportunità lavorative si concentrano, in particolare, su tre verticali: IT, Engineering e Sales.
“Il mercato del lavoro, già in fermento da almeno una decade al traino della rivoluzione digitale, è sotto il tiro di trasformazioni sempre più repentine e disruptive, con accelerazioni evidenti post pandemia”, spiega Marco Filippo Martinengo, Head of HR Solutions di Vertus.
“La workforce manifesta tutti i propri timori verso il cambiamento ed una sostanziale imprevedibilità dei comportamenti, alternando fasi di elevata attenzione all’offerta di lavoro e altre di ristagnamento o resistenza. Certo è che, se un’azienda non è in grado di offrire oggi progettualità di carriera che mettano al centro anche i needs e le aspettative di autorealizzazione delle persone, tenendo in ampia considerazione il bisogno crescente di essere orientate verso il futuro, i suoi candidati valuteranno con più facilità e frequenza di cercare prospettive altrove. Evidente il trend nelle fasce più giovani di popolazione – al centro del talent shortage e della cosiddetta great resignation del 2021 e 2022 – ma non solo: la tensione al miglioramento e la voglia di cambiamento paiono, oggi più che in passato, questioni d’impatto cross-generazionale. Al netto della seniority, saranno comunque senza dubbio i lavoratori più qualificati ad avere maggiori opportunità di crescita professionale”, continua l’Head of HR Solutions di Vertus.
Nato come risposta “obbligata” alla situazione pandemica, il progetto per la razionalizzazione della sperimentazione relativa allo smart working – realizzato nell’ambito delle iniziative promosse dal Programma Operativo Regionale cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo 2014-2020 – con il suo modello organizzativo ed i principi di delega e condivisione che ne sono alla base, è diventato elemento strategico nell’organizzazione di Vertus attuale e futura.
L’introduzione e la diffusione dello smart working obbliga tutti non solo ad uno sforzo innovativo in termini di cambiamento delle consuetudini, delle modalità di comunicazione e di procedure, ma anche e soprattutto alla definizione di uno stile di leadership in linea con le nuove modalità di lavoro in remoto.
I risultati conseguiti sono stati la condivisione del regolamento aziendale e degli accordi individuali; dal punto di vista più complessivo è stato molto utile nei confronti della direzione aziendale, alle prese con la gestione dell’evoluzione della società e con la definizione di un nuovo modello organizzativo, che ricomprenda sia i professionisti, legati alla società da vincoli più o meno stretti, sia i dipendenti, con diversi livelli di competenza ed autonomia professionale.
Fondata nel 1973, con sede ad Ascoli Piceno, Oil&Marine fino al settembre 2020 è stata una business unit di Manuli Hydraulics, a sua volta parte di Manuli Rubber Industries.
Con 90 dipendenti specializzati e un fatturato annuo di circa 15 milioni di euro (calcolato sulla media degli ultimi 5 anni), Oil&Marine produce e commercializza tubi in gomma per il trasporto sottomarino del petrolio.
In quasi 50 anni, la divisione di Manuli Hydraulics si è affermata in un business altamente specializzato, che oggi vede solo 5 operatori a livello mondiale. Attualmente la produzione globale di tubi in gomma per il trasporto sottomarino varia tra le 4mila e le 6mila unità all’anno. In questo contesto Oil&Marine è il terzo produttore con contratti attivi in ogni continente.
Manuli Rubber Industries si era prefissata di individuare un investitore per preservarne impianti e know-how. Per questo Vertus ha curato il processo di cessione, avviando una fase iniziale di confronto tra diverse possibili soluzioni. La scelta è infine caduta sul fondo Ibla Industries II di Ibla Capital, un private equity specializzato negli investimenti di turnaround, che ha acquisito il 100% della (ora ex) business unit di Manuli.
L’impegno di Ibla è quello di rilanciare Oil&Marine conquistando nuove quote di mercato. Gli analisti vedono infatti il mercato dei tubi in crescita nei prossimi 5 anni e pronosticano per il 2025 un valore del settore pari a 280 milioni di euro. A partire dal 2026 l’utilizzo di petrolio potrebbe essere superato da quello di gas naturale liquefatto, ma l’impiego di petrolio e gas è previsto come rilevante almeno sino al 2050. Come ha dichiarato a Il Sole 24 Ore l’AD di Ibla, Alessandro Lo Savio, il fondo intende restituire slancio a Oil&Marine: “Abbiamo già rassicurato i sindacati circa la nostra volontà di rilanciare il business”.
“Per Vertus – commenta Alessandro Ielo – si tratta di un successo. Abbiamo ridato respiro a un’azienda dall’alto potenziale, con un ruolo internazionale di primo piano nel settore. Un patrimonio di esperienza che non andrà disperso grazie all’acquisizione da parte di Ibla”.
Oltre 200 milioni di euro per favorire la riconversione industriale tramite la ricerca e lo sviluppo nell’ambito dell’economia circolare.
Il decreto del Mise dello scorso 5 agosto (Progetti di R&S economia circolare) ha stabilito i termini per l’attuazione della misura del Decreto Crescita volta a finanziare ricerche e sperimentazioni che traducano i principi della circolarità produttiva in occasioni di rilancio.
Le richieste di agevolazioni potranno essere presentate dal 5 novembre 2020.
Mantenere in uso le risorse il più a lungo possibile, progettare un prodotto perché abbia più cicli di vita, è un sistema virtuoso con benefici effetti sull’ambiente, importanti risparmi per le aziende e la creazione di nuovi posti di lavoro.
“In Vertus – racconta Maria Elena Brockhaus – basandoci anche sull’esperienza di advisory nei percorsi di reindustrializzazione, siamo convinti che l’economia circolare sia la corretta chiave di lettura per molti degli sviluppi futuri.
L’auspicio è che anche l’utilizzo in Italia delle risorse del Recovery Fund punti ad incrementare e diffondere questo modo di concepire lavoro e produzione nel segno della sostenibilità”.
Vertus è nel team di consulenti del nuovo Acceleratore Imprese, la piattaforma di advisory varata da CDP Cassa Depositi e Prestiti.
Cdp ha presentato in una videoconferenza stampa due nuove piattaforme per la consulenza in ambito strategico, risorse umane, trasformazione digitale e tax&legal: Acceleratore Imprese, appunto, e Digital Xcelerator.
Digital Xcelerator è una piattaforma di e-learning per le start up, per accompagnarle nella crescita.
Acceleratore Imprese propone alle aziende il supporto di un team appositamente selezionato, costituito da professionisti di primarie società di consulenza internazionale e università.
Vertus ha l’onore di farne parte e mette a disposizione i suoi professionisti per advisory in tema di sviluppo delle risorse umane; per la formazione manageriale, anche in operazioni straordinarie di M&A e private equity; per lo scouting e l’accesso a finanziamenti agevolati.
“Dobbiamo permettere alle imprese italiane – ha commentato il Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli in conferenza stampa – di confrontarsi con il mercato globale e di essere competitive in un contesto sempre più sfidante.”
La transizione alla mobilità elettrica è un processo ormai avviato e forse giunto a un punto di non ritorno. Le prime a prenderne atto sono state le stesse case automobilistiche, anche se la scelta, come vedremo, non è indolore.
I dati contenuti in questo articolo e relativi alle criticità del passaggio all’elettrico per l’industria automotive, sono purtroppo destinati a essere sostituiti a breve da numeri ben più preoccupanti, come conseguenza della generale crisi economica provocata dall’epidemia di Coronavirus.
Basti pensare alle notizie provenienti dalla Cina, dove in febbraio la vendita degli autoveicoli ha registrato un calo del 79% (dati della China Passenger Car Association).
Quella che vorremmo presentarvi è quindi una fotografia pre-Coronavirus dello “stato dell’arte” dell’industria automobilistica.
Per passare all’elettrico si tagliano posti di lavoro
In una recente intervista al quotidiano economico tedesco Handelsblatt, il CEO di Volkswagen Herbert Diess ha dichiarato che la casa automobilistica intende abbandonare il gas naturale, a fronte delle scarse immatricolazioni di auto a metano in Germania, per puntare tutto sull’elettrico.
In realtà è già da qualche anno che i grandi brand del settore stanno aumentando gli investimenti per la conversione alla trazione elettrica, per sostenere i quali, però, tagliano i costi della produzione tradizionale.
Sempre secondo Handelsblatt, prossimamente Daimler AG potrebbe licenziare 15mila persone. La casa automobilistica tedesca, che comprende i marchi Mercedes-Benz, Maybach e Smart, aveva già annunciato l’eliminazione di almeno 10.000 posti di lavoro entro il 2022, per finanziare la transizione all’elettrico.
Honda intende eliminare 3.500 unità lavorative nel 2020 nel Regno Unito, mentre Audi, a fine novembre 2019, ha annunciato 9.500 tagli.
Ad accelerare il processo sono stati gli obiettivi di emissioni di Co2 posti dall’Unione Europea: per il 2030 dovranno essere inferiori del 37,5% rispetto al limite di 95 grammi per km del parco veicoli previsto per il 2020-21. Le case automobilistiche che non riusciranno a raggiungere tale media dei 95 g/km, verranno sanzionate.
Come spiega la rivista Energia Oltre, infatti, “il superamento del limite di 95 grammi di anidride carbonica per ogni chilometro comporta una multa di 95 euro per ogni grammo per chilometro oltre il limite, moltiplicato per il numero totale di auto vendute dal costruttore”.
I rischi per imprese e occupazione
Le decisioni europee, a cui fanno eco i vari Piani energetici degli Stati membri, rispondono a oggettive emergenze ambientali. Ma il risvolto economico di tali decisioni presenta parecchie zone d’ombra.
A risentirne innanzi tutto i comparti legati alla produzione dei veicoli considerati inquinanti, come i diesel. Per limitarci a un esempio italiano, Bosch, nel novembre 2019, ha annunciato, per lo stabilimento di Bari specializzato nella produzione di pompe per i diesel, 620 esuberi entro il 2022.
Ma il problema si allarga a tutta la filiera collegata agli automezzi con motore a scoppio.
In un approfondimento il portale Qualenenergia.it evidenzia che per la costruzione di veicoli elettrici occorre circa il 40% di componenti in meno rispetto alle auto con motori a combustione interna: non c’è bisogno di raffreddamento, cambio, iniezione… Componenti che alimentano una vasta filiera di fornitori che, infatti, ha iniziato a risentire del cambiamento.
Per citare un caso, la tedesca Mahle, azienda produttrice di pistoni, ha annunciato la chiusura di tutti i suoi stabilimenti italiani e avviato le procedure di licenziamento.
In un intervento per Il Sole 24Ore, Lorenzo Paoli, Director Strategic di Management Partners, ha descritto così la situazione italiana: “Il passaggio all’elettrico comporta una serie di rischi per le imprese che operano nel settore, imprese che nel nostro paese sono Pmi nell’82% dei casi e danno lavoro a 260.000 addetti.
Per capire i potenziali effetti/rischi sull’indotto automotive, si pensi che il 50% del costo industriale di un’auto elettrica non è presente all’interno di un’auto tradizionale endotermica. E gli effetti non si limitano alla powertrain, ma si estendono anche a carrozzeria, telaio e interni”.
Nel caso di auto ibrida plug-in, le ore salgono a 9,2, perché occorre assemblare anche il motore elettrico e le batterie.
Invece, per un’auto full electric le ore scendono a 3,7, ossia il 40% in meno, poiché la trasmissione è più semplice e il motore termico non c’è.
Le ibride plug-in, proprio per questa loro maggior complessità, sono viste come una possibile fase di passaggio, meno traumatica, per arrivare all’elettrico “puro”.
Davide Tarsitano, docente di Meccanica applicata alle Macchine al Politecnico di Milano, ritiene che si stia creando “un vasto spazio per le auto ibride plug in, con ricarica dalla rete, che, avendo batterie più piccole, costano poco più delle auto convenzionali, ma permettono l’uso elettrico sui brevi percorsi quotidiani, e a benzina su quelli lunghi, senza problemi di ricarica. Le ibride hanno bisogno di componenti elettrici ed elettronici, ma anche di quelli tradizionali per motori a scoppio”.
Mobilità elettrica e nuovi business
D’altro canto c’è chi mette in evidenza le specifiche esigenze della mobilità elettrica, destinate a creare inediti settori produttivi e nuove professioni.
Ad esempio, nel campo dei materiali. Il rapporto della società di ricerche di mercato, con sede a Cambridge, IDTechEx, “Die attach materials for power electronics in electric vehicles 2020-2030”, prevede che il mercato dei componenti sinterizzati per il settore automotive toccherà il valore di 30 miliardi di sterline entro il 2026.
Sono da considerare anche tutte le opportunità legate alla guida autonoma, alle modalità di ricarica, fino al settore delle batterie, sul quale la Ue sta puntando con il progetto Battery2030+, che include la creazione di 16 gigafactory in Europa (di cui due in Italia) per la produzione di batterie, in modo da eliminare la dipendenza dal mercato asiatico.
La e-mobility in Italia
Enea, l’Agenzia nazionale per l’energia, in un’audizione nella X Commissione del Senato lo scorso 4 febbraio, ha presentato una panoramica del mercato dell’auto elettrica in Italia: “In Italia il mercato della motorizzazione elettrica si presenta ancora allo stato embrionale con quote di mercato minoritarie.
Nel 2019 sono stati venduti in totale 17.065 veicoli elettrici, di cui 10.566 Battery Electric Vehicle, BEV, e 6.499 Plug-in Hybrid Electric Vehicle, PHEV, con un incremento del 71% rispetto al precedente anno (dati Unione Nazionale Rappresentanti Autoveicoli Esteri, UNRAE).
Questo dato riferito al complessivo totale delle immatricolazioni si attesta allo 0,8% del venduto, in crescita di 0,2 punti rispetto all’anno precedente. Il parco elettrico circolante è indicato in circa 39.000 veicoli. La dinamica delle vendite si concentra essenzialmente negli ultimi due anni (27.041 veicoli elettrici)”.
Enea riporta poi i dati di Transport & Environment – la Federazione europea delle Ong impegnate sul fronte ambientale – che ipotizza la creazione, nel settore della mobilità elettrica, di 120.000 nuovi posti di lavoro in Europa, di cui 18.000 diretti e i restanti indiretti (forniture, logistica, subcontraenti, automazione, studi di ingegneria…).
Passando all’Italia – prosegue il rapporto Enea – “l’industria italiana sta reagendo al ritardo iniziale con cui ha risposto alle nuove tecnologie automotive e sta recuperando attraverso una produzione in stabilimenti nazionali sia di un modello BEV che di veicoli PHEV di classe elevata.
Circa i volumi produttivi T&E stima un incremento del 7,5% come differenza tra maggiori veicoli elettrici e minori convenzionali. Contemporaneamente viene stimata in leggera crescita l’occupazione nei prossimi anni, anche a fronte di una maggiore automazione industriale”.
Le criticità maggiori si rilevano invece per il settore della componentistica. Come riferisce Enea, secondo T&E “l’avvento dell’elettrificazione ridurrà i volumi produttivi di alcuni componenti non più previsti sui veicoli quali filtrazione, lubrificanti, trasmissione, iniettori, valvole e finanche i retrovisori (sostituiti da retrovisori elettronici). Per questo settore andranno prese misure per accompagnare la transizione verso nuove tecnologie elettriche (connettori, cavi, isolanti, sistemi elettronici ausiliari…)”.
Più ottimistiche le prospettive tratteggiate da Motus-E, l’Alleanza italiana per la mobilità elettrica, in un recente convegno a Torino, dal titolo “Mobilità sostenibile al lavoro”, 30-31 gennaio 2020, organizzato dalla rete di associazioni Sbilanciamoci e da Fiom Cgil.
Qui Motus-E ha presentato una ricerca, in collaborazione con lo Studio Ambrosetti, in cui viene evidenziata la presenza in Italia di una rete di piccole e medie imprese impegnate nella riconversione, con 5,4 miliardi di ricavi derivati dalla e-mobility.
La stessa Motus-E, comunque, ha presentato al Governo una serie di proposte non solo per incentivare l’acquisto di auto elettriche e per lo sviluppo delle infrastrutture di ricarica ma anche per sostenere la filiera del settore automotive:
agevolazioni alle reti di impresa e alle aggregazioni di Pmi del settore;
potenziamento dello strumento delle “reti di impresa ambientale”;
sostegno agli investimenti in Ricerca e Sviluppo e riconversione industriale (anche con la creazione di un Tech Transfer Lab);
supporto alla formazione e riconversione delle competenze, utilizzando i programmi di Industria 4.0;
sgravi fiscali per l’assunzione di tecnici e riqualificazione del personale;
fondi dedicati all’assunzione di giovani.
Le preoccupazioni del Governo
Se le prospettive economiche sul lungo termine possono apparire incoraggianti, sul breve periodo la preoccupazione cresce.
Il ministro per lo Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, ha recentemente dichiarato a Il Sole 24Ore di voler introdurre incentivi alla rottamazione finalizzati anche all’acquisto di veicoli a trazione tradizionale, per dare un boost all’industria automobilistica italiana.
“L’automotive è al centro di una transizione complessa che va supportata – ha detto Patuanelli – Bisogna pensare a degli strumenti di rottamazione anche per l’acquisto di auto non elettriche. Dobbiamo partire da un dato: abbiamo un parco auto fatto per il 62% di auto da Euro 4 in giù, macchine che hanno almeno 10 anni. E il 32% sono Euro 3.
Abbiamo bisogno di una nuova rottamazione per migliorare i livelli di emissioni e per dare un po’ di ossigeno al settore. E lo stesso discorso vale per le moto e il comparto delle due ruote”.
Immediata la levata di scudi di Motus-E: “Proposte come quella del Governo rischiano di fiaccare, nel nostro Paese, qualsiasi slancio di ripresa sia in termini industriali che occupazionali, in un contesto macroeconomico non certo favorevole, proprio nel momento in cui si stanno riconvertendo gli stabilimenti per la produzione di auto elettriche”.
Ciò che è certo è che il settore automotive sta vivendo un delicato periodo di passaggio, dove la necessità di investimenti per lo sviluppo dell’elettrico non può tralasciare l’esigenza di preservare posti di lavoro e impianti produttivi attraverso l’elaborazione di piani di riconversione e la formazione del personale.
Giovedì 20 febbraio presso il Ministero dello Sviluppo Economico è stato firmato l’accordo quadro per la reindustrializzazione dello stabilimento Treofan di Battipaglia. L’accordo tra l’attuale proprietà di Jindal, gli acquirenti di Jcoplastic, i sindacati e Confindustria locale nasce con il contributo dell’advisoring di Vertus, che sta lavorando a questo progetto di reindustrializzazione dal marzo 2019.
La vicenda
Nel 2018 le attività europee di Treofan nella produzione di film in polipropilene biorientato, con due sedi in Italia, vengono acquisite dal gruppo indiano Jindal Films. Pochi mesi dopo la nuova proprietà decide di chiudere lo stabilimento di Battipaglia, in provincia di Salerno, e di licenziare i 67 dipendenti.
Il motivo è la bassa marginalità dello stabilimento che, nonostante la grande dimensione del complesso industriale (oltre 200.000 mq), rappresentava un piccolo insediamento produttivo di film standard rispetto alle altre unità del gruppo Jindal.
Il Ministero dello Sviluppo economico istituisce un tavolo di crisi, presieduto dal vice capo di Gabinetto Giorgio Sorial, per confrontarsi con Jindal. Iniziano intanto le proteste dei lavoratori.
Vertus viene incaricata della reindustrializzazione per ricercare aziende interessate a rilevare e rilanciare l’impianto di Battipaglia. Sono più di 160 i possibili investitori che Vertus interpella.
Finalmente l’offerta vincolante presentata da Jcoplastic, azienda produttrice di contenitori in plastica, consente di trovare un accordo con Jindal, la quale si rende disponibile a cedere area e beni a un prezzo simbolico. E si arriva così alla firma dell’accordo.
Il progetto di rilancio
Jcoplastic si è impegnata a salvaguardare il posto degli attuali 51 lavoratori, per i quali è previsto anche un piano di formazione.
Il progetto di rilancio prevede, nell’ambito dell’economia circolare, produzioni complementari a quelle del gruppo e dei mezzi a trazione elettrica per la distribuzione dei prodotti.
“Siamo molto soddisfatti di questo accordo – commenta Alessandro Ielo, founder & managing partner di Vertus – che è frutto di un impegno di squadra molto intenso, in cui non solo l’attività di ricerca ma anche quella di supporto nelle negoziazioni è stata molto sfidante. Naturalmente l’accordo quadro siglato al Mise è solo un inizio, in ogni caso decisamente molto positivo”.